8/11/2010
FANALI e FARI

Ho trovato un articolo molto interessante sui fanali e fari, e voglio proporlo agli amici del sito.

In fondo all'articolo ho inserito le immagini di alcuni fanali collegati ai mezzi d'utilizzo. Per questa seconda parte, faccio il solito discorso :
Le immagini e le indicazioni allegate non vogliono essere il "vangelo" del ricambio o del restauro! Come nel caso dei colori dei trattori, è difficile ricostruire l'esatto intento del costruttore.
Per i costruttori Italiani penso dipendesse semplicemente dagli acquisti. A volte, guardando anche i cataloghi d'epoca vediamo per lo stesso modello dettagli diversi.Secondo me, come avveniva per il colore, il costruttore ordinava un quantitativo di un certo fanale. Finito tale quantitativo ( e ricordo che per certi trattori la produzione di serie significava 10-30 mezzi prodotti) non era detto che il fornitore avesse a magazzino lo stesso tipo acquistato in precedenza!
Per i trattori esteri dipendeva dall'importatore. L'impianto elettrico, ed altri accessori dei trattori importati, erano spesso legati ai contratti d'acquisto con la casa madre. L'importatore, per guadagnare qualcosa in più acquisiva i mezzi senza alcuni accessori (tipo impianto elettrico), completando poi i mezzi all'interno della propria officina, usufruendo di accessori nazionali.
Esempio per tutti lo Steyr, che veniva importato senza fanali, e l'importatore montava i Carello o i Siem tipici degli OM.

STORIA DEI FARI
“Tutti vogliono prevedere e sapere come sarà il mondo nell’anno 2000 – scriveva la Rivista del Touring Club Italiano nel maggio 1904 – ed una tale curiosità tormenta anche il signor Louis de Meurville…In quanto alle ferrovie egli dice che esse, di qui a cent’anni, non potranno più sostenere la lotta contro gli automobili, se non si trasformeranno completamente, con uno scartamento assai più grande, con vetture assai più larghe, nelle quali, senza sentire la menoma scossa, si possa leggere, scrivere, mangiare, dormire, farsi la barba e trovare il bar, la biblioteca e il bagno; e tutto questo colla velocità di 150 km/h…Ci saranno delle strade riservate agli automobilisti, fatte a bella posta, inclinate nelle svolte, incrociantisi con altre strade, solo mediante soprapassaggi e sottopassaggi; la velocità degli automobili non sarà inferiore ai 100 chilometri all’ora; né quella degli omnibus e delle vetture sarà mai minore dei 50 chilometri; e si costruiranno tante e tante strade per le vetture, ciclisti, pedoni che non resterà più alcun terreno per coltivare il grano”.
Era lungimirante, questo sconosciuto indagatore del futuro, e per molte cose potremmo riconoscerci nelle sue parole. Era così facile, cent’anni fa, prevedere cosa sarebbe successo relativamente ad un oggetto in così rapida evoluzione come l’automobile? Se prendiamo per esempio uno dei tanti, tantissimi, componenti dell’ automobile, il proiettore (chiamato anche, come vedremo impropriamente faro), né le lampade a scarica di gas allo xeno, sul mercato dal 1991, che garantiscono un’intensità luminosa più che raddoppiata rispetto a quelle della generazione precedente, né il sofisticato sistema messo a punto dalla Bosch per regolare l’assetto dei fari (sensori ad ultrasuoni piazzati sul muso e sulla coda della vettura, che rilevano la distanza della carrozzeria dalla strada, e una centralina elettronica che misura l’inclinazione della macchina), sembrano diretti discendenti dei fari ad acetilene di appena ottant’anni prima. Troppo grande la distanza anche concettuale, e troppo rapida l’evoluzione perché su questo argomento il signor de Meurville potesse avere delle intuizioni! Dunque, almeno per quanto riguarda il sistema di illuminazione, il “futuro del passato”, ciò che si vagheggiava e si ipotizzava per il duemila cent’anni fa, può servire a poco. Infatti, all’inizio della locomozione motorizzata, il problema non si pose proprio. Era già un dramma guidare una vettura di giorno, con tutti gli imprevisti, le pannes, le difficoltà di una automobile del 1890, perché complicarsi la vita guidandola anche di notte! Da non trascurare il dettaglio, non insignificante, che le stesse strade erano buie, e non certo asfaltate, perciò i pericoli e le insidie della circolazione erano pressoché insormontabili. Ragion per cui sulle prime vetture furono montati semplicemente i classici fanali delle carrozze a cavalli, magari costruiti da Henri e Francois Ducellier, che già dal 1830 a Parigi conducevano la loro attività di produzione di fari a olio per carrozze. Erano scatole di lamiera protette sul davanti da lastre di vetro, nelle quali ardeva una lampada ad olio o una candela: l’indispensabile per essere visti in caso di sosta. L’”essere visti” è infatti l’unica funzione che può assolvere un faro, e difatti i “fari” sugli scogli del mare servono proprio a questo, non certo ad illuminare il mare. Bastò poco, dunque, perché il faro delle carrozze a cavalli si rivelasse in tutta la sua inadeguatezza: bastò che la velocità delle automobili aumentasse, e soprattutto crescesse l’ansia dello chauffeur di usare la sua vettura in tutte, o quasi, le situazioni. Ecco la nascita del proiettore, cioè di apparecchi che mediante specchi o lenti convogliano il flusso luminoso della sorgente di luce entro un angolo ristretto e diretto in una determinata direzione. La sorgente di luce non poteva più essere la candela, troppo debole. La soluzione fu trovata trasferendo in campo automobilistico una tecnologia sfruttata in campo militare e nelle miniere: l’utilizzo del gas acetilene (carburo d’idrogeno), scoperto nel 1836, che brucia all’aria con fiamma molto luminosa e che, con aria o ossigeno, forma miscele esplosive. Questo sistema aveva avuto dei pionieri: Louis Blériot a Parigi e la Salsbury Company di Londra fin dal 1899 iniziarono a costruire proiettori per auto a gas di acetilene. In America la Prest-o-Lite di Indianapolis trovò la maniera di comprimere l’acetilene in bombola a bassa pressione, per poi scioglierlo in acetone; in Europa, invece dal 1904 si diffuse la consuetudine di combinare il carburo di calcio con l’acqua. Con tutti gli inconvenienti che si possono immaginare: l’acqua gelava facilmente, spesso si verificavano incendi o addirittura esplosioni. Il generatore era generalmente fissato al predellino destro della vettura, e comprendeva il serbatoio dell’acqua e la camera di reazione, entrambi smontabili. Il meccanismo funzionava per non più di quattro ore, dopodiché occorreva smontare e ripulire tutto, compresi gli specchi e gli schermi di vetro, le lenti, le superfici paraboliche, cioè tutto ciò che concorreva alla propagazione della luce, oltre che alla formazione della sorgente luminosa. Un lavoraccio! Eppure, da quando si diffuse, questo sistema fu salutato con sollievo e durò per oltre un decennio.
I produttori erano tanti: la Fratelli Carello di Torino, che costruiva lanterne, fari e fanali dal 1876, la Rejna-Zanardini di Milano, la Ing. Troubetzkoy di Milano, la Ducellier di Parigi, la Elma e la Blériot, entrambe francesi, la Charles Salsbury, operante in Inghilterra fin dal 1806, la Rushmore, sempre britannica, e in Germania, a partire dal 1902, la Dietz. Come spesso succede, il progresso arrivò facendo ricerche in tutt’altro campo. Tanto per cominciare, non se ne poteva più della manovella: gli chauffeurs sognavano un avviamento automatico, ossia elettrico. Una volta che si riuscì a installare sulla automobile un impianto elettrico, diventò un gioco da ragazzi collegarvi il sistema di illuminazione. Fu in campo militare, ovviamente, che si era sperimentato per la prima volta l’uso dei proiettori elettrici. Durante la guerra di Crimea (1853-1856) la flotta francese ne fece uso, i primi nella storia, così da impedire al nemico di ricostruire ciò che avevano bombardato durante il giorno. E i francesi non se ne dimenticarono anche quando si trattò di difendere Parigi durante l’assedio del 1870. Da questo al faro elettrico per auto la strada fu però lunghissima. Il primo brevetto per un proiettore elettrico fu conseguito dalla Bassée & Michel di Parigi nel 1899, ma non ebbe seguito immediato. Due anni dopo Charles Vender Vent, a Londra, montò su un’automobile un proiettore elettrico laterale. E cominciarono a vedersene di serie su alcune Daimler del 1902. Fu però nel 1908 che la Hella, casa tedesca di parti staccate, costruì il suo primo proiettore anteriore elettrico, con riflettori parabolici. Non era molto luminoso (la sua luminosità equivaleva a quella di 21 candele) ma per lo meno non necessitava di pulizia, non si spegneva se c’era vento e non sfrigolava.
Solamente comunque nel 1910 circa si arrivò a risolvere il problema principale, quello del filamento. Quello delle prime lampadine era di carbone e non reggeva certo i sobbalzi che le asperità delle strade, e le sospensioni di allora, causavano alla guida. Si dovette passare dai filamenti in tantalio ed osmio (1905) per giungere a quello in tungsteno. Ma i problemi non si esaurivano lì: un’altra difficoltà scaturiva dal fatto che sulle automobili allora non vi erano né batterie né generatori, perciò la corrente era assicurata da pile o da batterie autonome, che si scaricavano presto. Vi fu chi inventò la dinamo, e ne aprofittò il solito Louis Blériot, nome molto ricorrente in questa storia. Il famoso pioniere dell’aviazione francese, lo stesso anno in cui trasvolò la Manica, ossia il 1909, l’aveva installata sulla sua auto, precorrendo di tre anni la Cadillac, la prima marca automobilistica che installò di serie i fanali anteriori elettrici sulle proprie auto.
Il più era fatto: ora non si trattava che si attendere il progressivo estendersi dell’illuminazione elettrica su tutte le auto, il che avvenne verso la metà degli anni venti. In realtà esisteva ancora uno spinoso problema: si era riusciti a far luce, questo sì, ma non ad impedire che la luce dell’uno abbagliasse l’altro. Per risolvere l’inghippo si escogitò di tutto. Nel 1905 fu brevettato un sistema antiabbagliamento consistente in un otturatore da apporre sul fascio centrale di luce, conosciuto sul mercato come “Autoclipse”; tre anni dopo Salsbury presentò un faro con il vetro a prismi orizzontale sulla metà superiore; Hella invece ideò un fanale anteriore dotato di cavo Bowden in grado di mettere la sorgente di luce fuori fuoco in caso di incrocio con un’altra macchina. E poi ancora, fari girevoli e orientabili di lato al momento del bisogno; fari collegati al volante, così da proiettare sempre la luce all’interno della curva; due coppie di proiettori di cui una laterale e la seconda escludibile in caso di incrocio. Una delle soluzioni più diffuse consisteva in un commutatore che, manovrato nel monmento in cui si incrociavano altre vetture, inseriva nel circuito una resistenza in grado di assorbire parte della corrente e perciò di ridurre l’intensità luminosa della lampada. Si pensò anche (1921) ad un riflettore che poteva essere inclinato in basso o in alto dal conducente, in modo da alzare o abbassare il fascio di luce. Due anni prima, nel 1919, Bosch aveva però individuato la strada giusta, sperimentando una lampada a due filamenti. Solamente nel 1924 questa intuizione giunse a compimento, e venne realizzata la lampada a doppio filamento, in cui il fascio di profondità, ossia la luce necessaria ad illuminare la strada, si ottenne accendendo il filamento posto al di sotto del punto focale del riflettore; il fascio di incrocio, ossia la luce in grado di farsi vedere dall’altro, senza abbagliarlo, accendendo il filamento posto al di sopra. Era nato il proiettore moderno.
Nei decenni venti e trenta, le ulteriori modifiche furono spesso di carattere estetico, più che sostanziale. Il proiettore per esempio assunse sempre più spesso una forma a goccia, seguendo le tendenze aerodinamiche del tempo; non fu più realizzato in ottone bensì cromato o dello stesso colore della carrozzeria; inoltre, lentamente, fu incorporato dal cofano, dal quale era finora sempre rimasto distinto. La linea stilistica andava infatti in direzione di una progressiva integrazione in un tutto unico delle varie parti anteriori dell’automobile: paraurti, parafanghi, fari, cofano. Il faro però fino a quel momento aveva conservato caratteristiche ben precise: quella di essere tondo, e di essere in coppia. Con gli anni cinquanta, si verificò la seconda grande rivoluzione nella storia dei fari. Cominciarono a vedersene di tutte le forma, anche quadrata o rettangolare, e soprattutto in duplice coppia. Cos’era capitato? Eravamo rimasti alla invenzione di una lampada in grado di commutare il fascio di luce da abbagliante ad anabbagliante. Una sola lampada assolveva dunque alla funzione di fornire la luce di profondità e quella di incrocio. Com’è ovvio, il risultato non poteva essere perfetto. La posizione ideale per il filamento utilizzato per il fascio di profondità è nel punto focale del riflettore, mentre per il fascio d’incrocio il filamento deve avere una estremità in corrispondenza del fuoco e l’altra spostata in avanti lungo l’asse. Uno solo dunque può trovarsi nella esatta posizione, a scapito del rendimento dell’altro. Ecco perché nel 1952 comparvero su vetture americane i quattro proiettori. Non tanto per una questione di estetica o di moda ma per far sì che per ognuno dei due servizi fosse prevista una specifica coppia di fanali. E anche la forma cambiò, passando da quella circolare a quella, come si è detto, quadrata o rettangolare, grazie ad uno “snellimento” delle parti periferiche del riflettore parabolico. Sembrava fosse stato inventato tutto, e invece moltissimo doveva ancora arrivare. Per esempio (1955) il faro asimmetrico, ossia un faro che sparava sul lato destro della carreggiata un fascio più luminoso di luce. Questo sembrava potesse garantire una maggiore sicurezza soprattutto per quanto riguarda gli eventuali pedoni o ciclisti che occupano il lato destro della strada. Poi arrivarono i fari orientabili in funzione dello sterzo, ossia gli occhi della Déesse, della Citroen DS, una delle vetture più rivoluzionarie in assoluto della storia dell’automobile. Si trattava di un faro che variava l’orientamento del fascio luminoso a seconda della posizione delle ruote anteriori, seguendo la traiettoria della curva. Non ebbe seguito, perché complesso, costoso e pesante. Ma non finisce qui. Nel 1958 si sperimentarono, in campo aeronautico, le prime lampade alogene, e nel 1962 sulla Ferrari vittoriosa a Le Mans con Gendebien/Hill sono montati dei fari allo iodio. E’ questa infatti la grande novità, che si afferma in Italia nella seconda metà degli anni sessanta. Ne parla La Stampa in un articolo di Ferruccio Bernabò nel giugno 1966, che li definisce “un importante contributo ai problemi della sicurezza” in quanto migliorano notevolmente la visibilità notturna, senza i tipici fenomeni di deterioramento della classica lampadina ad incandescenza: annerimento del bulbo, assottigliamento del filamento. Ma…doveva ancora arrivare il computer, negli anni ottanta e novanta. Ed eccoci alla terza rivoluzione. Fari piccoli, ribassati e grintosi, proiettori poliellittici, caratterizzati cioè dal ridottissimo ingombro verticale, nei quali ad un riflettore elissoidale è abbinata una lente. Fari, per intenderci, calcolati al computer, sia sotto l’effetto ottico sia sotto l’effetto estetico, in tutte le loro caratteristiche, grazie alla versatilità del nuovo strumento di lavoro. La libertà di progettazione, con il sistema CAD, computer-aided-design, è quasi illimitata, perché permette di verificare l’efficacia e la resa di ogni soluzione ancora nella fase preliminare. La varietà di sagome che ne scaturisce è enorme.
Oggi il fascio luminoso che esce dalla parabola è già orientato: il vetro esterno, che fino a poco tempo fa doveva assicurare angoli di rifrazione ben precisi, non svolge più alcuna funzione ottica. E’ spesso soltanto uno schermo, perciò può essere inclinato come si desidera, cosa favorita anche dai nuovi materiali impiegati, per esempio il policarbonato. Si diffondono perciò i cosiddetti fari “in forma”, così chiamati non perché obbediscono all’imperativo della nostra società che ci vuole tutti magri, ma perché seguono fedelmente il disegno delle lamiere. Sono i nostri occhi meccanici, un po’ spoetizzati rispetto a quelli “a scomparsa”, misteriosi, intriganti, delle auto sportive di trent’anni fa. Ma forse ci faranno vedere meglio, cosa di cui c’è sempre bisogno.

Donatella Biffignandi
www.museoauto.it


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Fanali al carburo montati sul nostro Fiat 18P



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Fanale a petrolio, sempre a corredo del 18P



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I fanali del INTERNATIONAL FARMALL mod.M, posizionati "all'Americana"



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I fanali dei FERGUSON della serie TE 20. I primi modelli portavano incisi sul vetro il classico logo, con il trattorino, del System Ferguson



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Gli enormi fanali dell'autovettura FIAT 507, mantenuti sul veicolo trasformato in autosgranatrice



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I fanali del FIAT 700D



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I fanali dei FIAT "la piccola", 211 e serie simili



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I fanali del FORDSON SUPER MAJOR



SSSSSSSSS


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I fanali del LANDINI Velite



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I fanali del LANZ BULDOG 2806 semidiesel



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I fanali del MINNEAPOLIS MOLINE UTU



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I fanali del MOTOMECCANICA MR75



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I fanali del MOTOMECCANICA RD94



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I fanali del MOTOMECCANICA RP3



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I fanali degli OM e FIAT - marca Carello - Guscio in ferro e griglia anteriore in alluminio
(Questi fanali venivano montati anche su altri trattori, tipo Steyr o Delmonte)



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I fanali degli OM e FIAT - marca SIEM - Guscio in ferro e griglia anteriore in alluminio
(Questi fanali venivano montati anche su altri trattori, tipo Steyr o Delmonte)



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I fanali dei FIAT - marca ELMA - Guscio in ferro e griglia anteriore rigorosamente in plastica
(Questi fanali venivano montati anche su altri trattori, tipo Nuffield)



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I fanali dei SAME (DA30, DA47,DA25B e altri)



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I fanali dello STEYR 180 (anche se venivano spesso montati i tipi OM Carello/Siem)